lunedì 15 aprile 2013

una rete educativa per rispondere alla società diseducante



Riporto il testo del mio intervento al Convegno sui 20 anni di Cam, che si è tenuto ad Alba il 12 e 13 aprile 2013

Una crisi culturale può dirsi davvero pesante quando, per tenere lo sguardo al futuro, ci scopriamo a guardare in continuazione al passato: Don Milani, Danilo Dolci, Gianni Rodari, Loris Malaguzzi, Mario Lodi e molti altri continuano ad essere la guida di chi, come me e come molti dei presenti in sala, costruisce tutti i giorni contesti educativi e di promozione sociale, cercando di rafforzare e trasmettere l'eredità culturale di questi grandi maestri, avendo però sempre la sensazione di non riuscire a trovare una strada che possa avere, per questa società, la forza di cambiamento di una Lettera ad una professoressa, o di una Grammatica della fantasia.

Del resto, la crisi culturale ed educativa di questo paese sta toccando i massimi storici: anche senza scomodare i sempre utili ed emblematici dati sugli investimenti sempre più scarsi sui settori scuola, welfare, arte e cultura, è la quotidianità di noi educatori, pedagogisti, insegnanti, ma anche genitori, a riportarci continuamente e con forza alla realtà di un paese educativamente allo sfascio.

Rispetto alla generazione del dopoguerra, chi lavora oggi nel mondo dell'educazione,  opera all'interno di una società diseducante, in cui i bambini e gli adolescenti ricevono continui impulsi e rinforzi ai lati più egoisti, autoreferenziali, narcisisti e violenti del proprio carattere.
Quando Gianni Rodari immaginò la Grammatica della fantasia, ad esempio, la scuola non sembrava riuscire a farsi carico delle esigenze di una società che chiedeva di più: più libertà di pensiero, più creatività, più confronto, più cultura. Rodari quindi, nello scrivere il suo capolavoro pedagogico, si fa portavoce di un'esigenza sociale, costruendo gli strumenti teorici per tutti quelli che ne avessero voluto raccogliere le suggestioni, all'interno e all'esterno della scuola.
Di Don Milani, Rodari, Dolci, ognuno a suo modo, possiamo quindi dire che abbiano dato gambe e pensiero ad esigenze che almeno una parte della società riteneva importanti per i propri figli.
Quaranta, cinquant'anni dopo, la società è diametralmente cambiata: l'orizzonte educativo della collaborazione, della crescita culturale, dell'ascensore sociale, della battaglia per i diritti, dell'accesso all'alfabetizzazione, dell'uguaglianza non è più riconosciuto come un'esigenza sociale.
La trasformazione, legata a doppio filo con il liberismo economico, che ha ridotto l'educazione da diritto a servizio, ha cancellato di fatto il ruolo sociale degli educatori (intesi in senso lato, dagli insegnanti ai genitori), trasformandoli in prestatori d'opera che devono “costruire” nuove generazioni adatte a rispondere alle esigenze della società: futuri consumatori, futuri benestanti, futuri ingegneri, futuri cardiochirurghi.
Non ho usato il termine “costruire” a caso: si forma quando non si sa quale sarà il risultato del proprio lavoro educativo, si costruisce quando si sa già dove si vuole arrivare, come un mobile ikea dotato di istruzioni immodificabili.
Un'educazione, quindi, dall'obiettivo preciso, concentrato sul singolo e dall'orizzonte sempre più limitato.
Non abbiamo quindi più grandi masse di persone che chiedono un riconoscimento e una proposta che vada a rinforzare i propri diritti, in generale, e a costruire, in particolare, un contesto educativo in cui ai propri figli sia permesso crescere, ma assistiamo alla singola richiesta di fornitura di servizi, a cui sembra difficile, se non impossibile, rispondere con una proposta dal coraggioso orizzonte educativo.

Diceva il grande pedagogista brasiliano Paulo Freire che “Un maestro senza giusta rabbia è solo un notaio dello status quo”.
Ecco: la grande battaglia degli educatori, in questa società diseducante, è quella di rifiutarsi di diventare notai dello status quo e fornitori di educazione on demand.
Ruolo difficile, questo, proprio perché molti degli agenti educativi classici, sempre di più, invece, accettano o addirittura teorizzano questo legame consumista con i bambini e soprattutto con i loro genitori: le scuole private e ancora di più i corsi di recupero privati come il Cepu o i suoi omologhi; la televisione, che non è più contenitore culturale, ma esclusivamente venditore di spazi pubblicitari; le scuole pubbliche schiave di un pof costruito per strizzare l'occhio alle ansie delle famiglie.
In questo, gli amministratori locali hanno una grande responsabilità, se decidono di sostenere – a fronte della spending review – contesti educativi ad accesso libero come i vostri CAM.

Perché  bisogna essere capaci di non lasciarsi abbattere dal contesto difficile: educatori, pedagogisti, insegnanti, scrittori, intellettuali, preti coraggiosi ne abbiamo ancora, e lottano tutti i giorni per conservare quel barlume di orizzonte educativo che possa insegnare ai bambini le regole del conflitto, il confronto con gli altri, la passione per la curiosità, l'esercizio della critica, l'espressione del proprio pensiero.
Ma, escludendo alcuni, purtroppo rari, presidi sociali, con chi possono allearsi, questi Don Chisciotte dell'educazione, per cercare di formare ancora nuovi cittadini liberi, capaci di pensare, di criticare, di costruire, di inventare, di relazionarsi con gli altri, di opporsi alle brutalità delle guerre e del razzismo?
Apparentemente con nessuno.
Non con gli enti pubblici, devastati da una politica dei tagli alla spesa pubblica, che mette anche gli amministratori più volenterosi – e non sono molti - di fronte al diktat dell'offerta al ribasso, impedendo di fatto un investimento serio sulla formazione.
Non con l'opinione pubblica, i cui malumori superficiali vengono sfruttati ad arte dai media, per creare una patina che rende sempre più difficile raccontare e far comprendere i processi più lunghi, più lenti e più complicati, come sono sempre quelli educativi.
Non con le famiglie, terrorizzate da una crisi che mette in serissimo pericolo il futuro dei loro figli, spingendole a radicarsi nella ricerca delle competenze ( il corso di inglese a tre anni, l'allenamento tre volte a settimana, le ripetizioni fin dalle elementari) a fronte di un disagio economico sempre maggiore in cui le offerte gratuite sembrano non corrispondere mai alle esigenze percepite.
Non con la scuola, strutturalmente inadeguata a rispondere alle sfide della contemporaneità e a cui, i tagli, hanno impedito i pochi miglioramenti che l'autonomia avrebbe dovuto comportare.

Credo quindi che la risposta possa essere solo quella di costruire delle reti, di cui facciano parte quegli enti, quelle scuole, quei singoli che ancora resistono ai diktat economici e alla crisi.
Reti di confronto e di supporto, reti di educazione, contesti che non solo teorizzino, ma mettano in pratica il fatto che crescere un figlio non è come costruire un mobile ikea.
Reti, quindi, che non condividano solo il fine (l’educazione), ma anche un metodo.
L'educazione è confronto, è scoperta, è possibilità di sbagliare e di correggersi, è la frequentazione di persone che non ci somigliano, è perdere tempo, è annoiarsi.
Servono reti che siano sponda di quei genitori che sentono di non fare il bene dei propri figli, iscrivendoli a nuoto, tennis, inglese, teatro e decoupage ma che sono a loro volta immersi in un contesto che li fa sentire in colpa, per questo, un contesto che suggerisce che un bambino che gioca sta, di fatto, perdendo tempo.
Reti che accolgano tutti quelli che fanno educazione, e non contenimento, che  siano  spazi di confronto e di crescita per gli adulti, ancora prima che per i bambini.
Spazi di resistenza democratica, in cui si possano riconoscere tutti quelli che si ostinano a creare contesti educativi basati sulle regole condivise, sull'accoglienza, sul confronto, sull'esercizio di critica, sul gioco e sullo scambio, perché è in questi contesti che i bambini crescono per come sono e non per come noi vorremmo che fossero.
Reti che non solo difendano l’esistente, soprattutto quando l’esistente è prezioso e di qualità, ma che abbiano il coraggio dell’analisi sociale e della proposta educativa: il mondo è cambiato, e in peggio: noi abbiamo il dovere di non restare fermi.

Spero che nei prossimi anni, Arci  - che è l'associazione per la quale lavoro e che è da anni il contenitore delle mie sperimentazioni educative – possa essere uno dei soggetti di questa rete di resistenza democratica ed educativa.
Lo spero perché è in gioco non soltanto, come si sente spesso dire, il futuro dei nostri figli, ma il concetto stesso di democrazia e di cittadinanza: una generazione a cui non è concesso di sperimentare la democrazia – che è fatta di confronto, di scontro, di conflitto, di pazienza, di cultura, di ragionamento e di prove ed errori - neanche nella mezz'ora di ricreazione del mattino, infatti, non sarà mai una generazione capace di conservare e far evolvere lo Stato in cui abita.

Come ha scritto recentemente Bruno Tognolini, che non a caso è considerato l'unico vero erede di Gianni Rodari, per le sue meravigliose filastrocche:


Gli abbiamo detto che la rabbia non è bene
Bisogna vincerla, bisogna fare pace
Ma che essere cattivi poi conviene
Più si grida, più si offende e più si piace
Gli abbiamo detto che bisogna andare a scuola
E che la scuola com'è non serve a niente
Gli abbiamo detto che la legge è una sola
Ma che le scappatoie sono tante
Gli abbiamo detto che tutto è intorno a loro
La vita è adesso, basta allungar la mano
Gli abbiamo detto che non c'è più lavoro
E quella mano la allungheranno invano
Gli abbiamo detto che se hai un capo griffato
Puoi baciare maschi e femmine a piacere
Gli abbiamo detto che se non sei sposato
Ci son diritti di cui non puoi godere
Gli abbiamo detto che l'aria è avvelenata
Perché tutti vanno in macchina al lavoro
Ma che la società sarà salvata
Se compreranno macchine anche loro
Gli abbiamo detto tutto, hanno capito tutto
Che il nostro mondo è splendido
Che il loro mondo è brutto
Bene: non c’è bisogno di indovini
Per sapere che arriverà il futuro
Speriamo che la rabbia dei bambini

Non ci presenti un conto troppo duro

martedì 23 ottobre 2012

Non ci ha fatto ridere




Per parlare della Ministro Fornero non basterebbe un post.
Ma per dire che la sua uscita sui giovani "Choosy", oltre che un'offesa è anche una minchiata, bastano poche righe.
Il focus del problema è nella richiesta di titoli di studio.
L'uscita della Fornero potrebbe, forse, avere un senso se stessimo parlando dei giovani non scolarizzati. I ragazzi con il diploma di terza media a 16 anni, quelli che faticano a comprendere il significato di un articolo, che non hanno mai letto un libro, che crescono e frequentano contesti di semianalfabetismo. Per questi ragazzi, questo Stato, invece di blaterare inutilmente, dovrebbe avviare seri programmi di lotta all'analfabetismo e alla dispersione scolastica, dovrebbe formare i professori, dovrebbe strutturare una scuola basata sulla crescita e non sulla selezione orizzontale, quella in cui si salva solo chi già sa.
Detto questo.
Detto questo, se - anche senza i programmi di lotta alla dispersione scolastica - questo governo mi viene a dire che un ragazzo con la terza media non deve aspettarsi di poter scegliere il lavoro dei suoi sogni, io questo è un discorso che capisco. E che, se fosse applicato, avrebbe anche forse il significato profondo di incentivare lo studio: Guarda che se non studi, poi ti becchi i lavori faticosi, quelli sporchi, quelli sottopagati.
Ma il problema, e mi stupisce che nessuno lo faccia presente al Ministro, è che qui stiamo parlando di un paese in cui, a non avere scelta, sono i laureati, quelli che escono dai dottorati e dai master.
In questo paese, quelli che si trovano a dover scegliere tra il lavoro faticoso, quello sporco  e quello sottopagato, sono, in egual misura, quelli che hanno studiato vent'anni. e quelli che hanno abbandonato la scuola.
In egual misura.
Qui sta il problema.
In questo paese non esiste alcun investimento in preparazione che venga poi premiato dalla possibilità di diventare o non diventare "choosy".
La Fornero ha detto questo: che se sei giovane, non puoi essere Choosy, indipendentemente da chi sei, da quanto vali e da quanto hai studiato. 

Allora bisogna dirlo, che se non dobbiamo essere Choosy, allora non dobbiamo neanche studiare.
Perchè, a quel punto, studiare diventa un investimento a perdere.
E' questo quello che vuole dire il Governo della Ministro Ferrero?
Che studiare è un investimento a perdere?
Se è così, che lo dicano.
Che lo dichiari il Ministro dell'istruzione.
Che affermino che l'attuale politica economica impedisce di scegliere la propria vita lavorativa, indipendentemente dai titoli, e che quindi, grazie a tutti, le nuove regole sono queste: una volta conclusa la scuola dell'obbligo, si tenta tutti il terno al lotto. Tu diventi ricercatore biotecnologo, e il tuo compagno di banco sgozzatore di maiali al macello.
Se questo paese avesse una classe politica, il ministro dell'istruzione sconfesserebbe una dichiarazione come quella della Fornero.
Direbbe che no, che non è vero, che studiare per anni ti permetterà di accedere a quella libertà di scelta che, com'è giusto, ti sarà costata fatica e sudore. Che proprio nella possibilità di premiare l'investimento nello studio affonda le sue radici una società almeno un po'  meritocratica.
Invece no.
Dicono che sono stati fraintesi.

Ci pisciano in testa e dicono che piove.

lunedì 6 febbraio 2012

Come nascono i bambini?

Tra i miei bambini meravigliosi, ce ne sono due che mia nonna avrebbe definito Strappabaci.
Lei, straniera, si chiama Giada.
Lui, italiano, si chiama Dennis.
Arrivo a mensa.
" maestra, maestra lo sai??? Sia la mia mamma che quella di Dennis sono incinte!!"
" ma davvero? Che bello! Ma si sono messe d'accordo? - chiedo, ridendo"
" no- risponde giada tutta seria - non credo. Perché la mia mamma è stata male tanto tempo e poi, alla fine, aveva un bambino nella pancia".
Replica Dennis: " invece la mia mamma diverso. Lei, il bambino, l'ha fatto con papà".

martedì 17 gennaio 2012

bambini terra terra

Riunione di un foltissimo gruppo di genitori dei futuri iscritti alla prima.
40 mamme.
1 papà.

I genitori si dividono a metà, tra quelli che vorrebbero il tempo pieno ( che non otterranno, causa tagli Gelmini) e quelli che vogliono 27 ore (cioè 5 mattine e due pomeriggi).

Una mamma difende la sua scelta per le 27 ore più o meno cosi:
"Io non voglio che mio figlio stia a scuola tutti i pomeriggi per fare cose, come avete detto voi, extracurricolari. Io voglio che torni a casa e studi da solo. Perchè è questo che poi gli servirà, alle medie: saper studiare tutte le materie da solo, e essere preparato alle interrogazioni del giorno dopo. Non gli serve stare a scuola, a disegnare o a fare teatro. Voglio che impari il metodo per arrivare alle medie preparato".

Io sono lì e mi immagino questo bambino di cinque anni e mezzo.
Che, tra l'altro, è presemte nella stanza, mentre sua mamma dice che non vuole vederlo perdere tempo a disegnare, perchè poi arriveranno le medie, e lui non sarà preparato ad affrontarle.
Mi immagino che idea avrà, questo bambino, del disegno, del teatro, del gioco e di tutte quelle cose che sua mamma dichiara essere inutili, davanti ad una platea di 40 mamme e 1 papà.
Ma soprattutto penso a questo paese.
In cui le mamme vogliono che i bambini i passino 5 anni a prepararsi per come sarà, quando saranno adoelscenti
E che gli adolescenti passino 3 anni a preparasi a quando saranno giovani
E che i giovani passino 5 anni a prepararsi a quando saranno adulti.
E quando poi diventano adulti?
Saranno finalmente arrivati?
Oppure dovranno passare tutta la vita a prepararsi alla vecchiaia?
E quando saranno vecchi? Non vorremo mica arrivare alla morte senza esserci abbondantemente preparati?

(Che, tra l'altro, lo dimostrano i fatti, non è neanche così.
Questi bambini, super preparati ad affrontare il Mondo del Lavoro - con la maiuscola - arrivano a 19 anni incapaci di affrontare la vita.)

Che tristezza, questo bambino, e tutti gli altri come lui.
Impegnati ad immaginare un futuro spaventoso, fatto di interrogazioni e di agonismo, già a 6 anni.
Senza un disegno, se non come premio per aver imparato tutta la tabellina del due, nella solitudine della loro casa.
Chissà quale mondo ha in testa, quel bambino di cinque anni e mezzo.
E chissà quale mondo si costruirà intorno, una volta raggiunta l'età adulta.

Poveri bambini, condannati ad uno sviluppo orizzontale, così terra terra, invece che ad uno verticale, con i piedi appoggiati saldamente al terreno e la testa fra le nuvole.

mercoledì 5 ottobre 2011

Questo blog è un blog di divulgazione pedagogica e di piccoli aneddoti educativi.
Il blog dell'associazione Prospettiva Ranocchio si trova qui: associazioneprospettivaranocchio
Buona visita!

mercoledì 23 febbraio 2011

la rivolta del piccolo F.

Succede che, a volte, anche l'educazione democratica vada rinegoziata.
E così, dopo 5 mesi di posti a tavola liberi abbiamo ceduto. Basta pane per terra, bambini in piedi, urla, scherzi, lacrime e pianti: abbiamo assegnato noi educatrici i posti fissi a tavola.

Abbiamo disegnato lo schemino, abbiamo assegnato i posti e poi abbiamo convocato una riunione con i nostri bambini.

Noi educatrici abbiamo quindi affermato che, dopo mesi di prove, non accetavamo più la bolgia dei posti liberi e che, quindi, avremmo proposto dei posti, che sarebbero stati obbligatori per un mese.
Scaduto il mese avremmo accettato le loro proposte alternative e, se accettabili, le avremmo messe in pratica.

26 bambini hanno mugugnato, protestato blandamente, accettato supinamente i nuovi posti obbligatori.
Ma il bambino F.
6 anni e mezzo.
Due denti e tre quarti.
Si è alzato in piedi.
Ha alzato il dito indice.
E ha urlato "Nooo. Non dobbiamo accettarlo! Dobbiamo rifiutare questi posti obbligatori!".
E poi si è guardato intorno.
Gli altri 26 bambini non hanno detto niente. Hanno guardato noi con l'aria di chi si aspetta il plotone d'esecuzione. E poi hanno guardato F.
Che si è risieduto e ci ha guardato in silenzio.
E noi, a quel punto, abbiamo confermato che, purtroppo, i posti, per un mese, ormai erano quelli che avevamo deciso noi adulti.

Ma detto fra noi.
Se gli altri 26 bambini avessero supportato la rivolta di F. io, pedagogicamente, mi sarei arresa.
Ma F. da solo, no.
Pedagogicamente, una rivolta solitaria è una rivolta fallita.

Ma detto fra noi.
Sono i bambini come F. che regalano la speranza per il futuro.

martedì 25 gennaio 2011

un nanetto meraviglioso



"Eravamo a Barcellona, con la guerra civile che imperversava, nel 1936. Per gli italiani non era facile, sospettati automaticamente di essere spie fasciste.
Una mattina si ferma, davanti al nostro portone, un furgoncino dei repubblicani antifascisti. Dal furgoncino scendono in quattro e si avvicinano alla porta. Noi eravamo molto spaventati, ma come erano arrivati, i repubblicani se ne andarono senza neanche bussare.
Allora uscimmo, e sul muro di fianco alla porta trovammo questa scritta, in rosso: "Non toccate questa casa, appartiene a Maria Montessori, amica dei bambini".


(Raccontata dal figlio di Maria Montessori, Mario)