Riporto il testo del mio intervento al Convegno sui 20 anni di Cam, che si è tenuto ad Alba il 12 e 13 aprile 2013
Una crisi culturale può dirsi davvero pesante quando, per
tenere lo sguardo al futuro, ci scopriamo a guardare in continuazione al
passato: Don Milani, Danilo Dolci, Gianni Rodari, Loris Malaguzzi, Mario Lodi e
molti altri continuano ad essere la guida di chi, come me e come molti dei
presenti in sala, costruisce tutti i giorni contesti educativi e di promozione
sociale, cercando di rafforzare e trasmettere l'eredità culturale di questi
grandi maestri, avendo però sempre la sensazione di non riuscire a trovare una
strada che possa avere, per questa società, la forza di cambiamento di una
Lettera ad una professoressa, o di una Grammatica della fantasia.
Del resto, la crisi culturale ed educativa di questo paese
sta toccando i massimi storici: anche senza scomodare i sempre utili ed
emblematici dati sugli investimenti sempre più scarsi sui settori scuola,
welfare, arte e cultura, è la quotidianità di noi educatori, pedagogisti,
insegnanti, ma anche genitori, a riportarci continuamente e con forza alla realtà
di un paese educativamente allo sfascio.
Rispetto alla generazione del dopoguerra, chi lavora oggi
nel mondo dell'educazione, opera
all'interno di una società diseducante, in cui i bambini e gli adolescenti
ricevono continui impulsi e rinforzi ai lati più egoisti, autoreferenziali,
narcisisti e violenti del proprio carattere.
Quando Gianni Rodari immaginò la Grammatica della fantasia,
ad esempio, la scuola non sembrava riuscire a farsi carico delle esigenze di
una società che chiedeva di più: più libertà di pensiero, più creatività, più
confronto, più cultura. Rodari quindi, nello scrivere il suo capolavoro
pedagogico, si fa portavoce di un'esigenza sociale, costruendo gli strumenti
teorici per tutti quelli che ne avessero voluto raccogliere le suggestioni,
all'interno e all'esterno della scuola.
Di Don Milani, Rodari, Dolci, ognuno a suo modo, possiamo
quindi dire che abbiano dato gambe e pensiero ad esigenze che almeno una parte
della società riteneva importanti per i propri figli.
Quaranta, cinquant'anni dopo, la società è diametralmente
cambiata: l'orizzonte educativo della collaborazione, della crescita culturale,
dell'ascensore sociale, della battaglia per i diritti, dell'accesso
all'alfabetizzazione, dell'uguaglianza non è più riconosciuto come un'esigenza
sociale.
La trasformazione, legata a doppio filo con il liberismo
economico, che ha ridotto l'educazione da diritto a servizio, ha cancellato di
fatto il ruolo sociale degli educatori (intesi in senso lato, dagli insegnanti
ai genitori), trasformandoli in prestatori d'opera che devono “costruire” nuove
generazioni adatte a rispondere alle esigenze della società: futuri
consumatori, futuri benestanti, futuri ingegneri, futuri cardiochirurghi.
Non ho usato il termine “costruire” a caso: si forma quando
non si sa quale sarà il risultato del proprio lavoro educativo, si costruisce
quando si sa già dove si vuole arrivare, come un mobile ikea dotato di
istruzioni immodificabili.
Un'educazione, quindi, dall'obiettivo preciso, concentrato
sul singolo e dall'orizzonte sempre più limitato.
Non abbiamo quindi più grandi masse di persone che chiedono
un riconoscimento e una proposta che vada a rinforzare i propri diritti, in
generale, e a costruire, in particolare, un contesto educativo in cui ai propri
figli sia permesso crescere, ma assistiamo alla singola richiesta di fornitura
di servizi, a cui sembra difficile, se non impossibile, rispondere con una
proposta dal coraggioso orizzonte educativo.
Diceva il grande pedagogista brasiliano Paulo Freire che “Un
maestro senza giusta rabbia è solo un notaio dello status quo”.
Ecco: la grande battaglia degli educatori, in questa società
diseducante, è quella di rifiutarsi di diventare notai dello status quo e
fornitori di educazione on demand.
Ruolo difficile, questo, proprio perché molti degli agenti
educativi classici, sempre di più, invece, accettano o addirittura teorizzano
questo legame consumista con i bambini e soprattutto con i loro genitori: le
scuole private e ancora di più i corsi di recupero privati come il Cepu o i
suoi omologhi; la televisione, che non è più contenitore culturale, ma
esclusivamente venditore di spazi pubblicitari; le scuole pubbliche schiave di
un pof costruito per strizzare l'occhio alle ansie delle famiglie.
In questo, gli amministratori locali hanno una grande responsabilità, se decidono di sostenere – a fronte della spending review – contesti educativi ad accesso libero come i vostri CAM.
In questo, gli amministratori locali hanno una grande responsabilità, se decidono di sostenere – a fronte della spending review – contesti educativi ad accesso libero come i vostri CAM.
Perché bisogna essere
capaci di non lasciarsi abbattere dal contesto difficile: educatori,
pedagogisti, insegnanti, scrittori, intellettuali, preti coraggiosi ne abbiamo
ancora, e lottano tutti i giorni per conservare quel barlume di orizzonte
educativo che possa insegnare ai bambini le regole del conflitto, il confronto
con gli altri, la passione per la curiosità, l'esercizio della critica,
l'espressione del proprio pensiero.
Ma, escludendo alcuni, purtroppo rari, presidi sociali, con
chi possono allearsi, questi Don Chisciotte dell'educazione, per cercare di
formare ancora nuovi cittadini liberi, capaci di pensare, di criticare, di
costruire, di inventare, di relazionarsi con gli altri, di opporsi alle
brutalità delle guerre e del razzismo?
Apparentemente con nessuno.
Non con gli enti pubblici, devastati da una politica dei tagli
alla spesa pubblica, che mette anche gli amministratori più volenterosi – e non
sono molti - di fronte al diktat dell'offerta al ribasso, impedendo di fatto un
investimento serio sulla formazione.
Non con l'opinione pubblica, i cui malumori superficiali vengono sfruttati ad arte dai media, per creare una patina che rende sempre più difficile raccontare e far comprendere i processi più lunghi, più lenti e più complicati, come sono sempre quelli educativi.
Non con l'opinione pubblica, i cui malumori superficiali vengono sfruttati ad arte dai media, per creare una patina che rende sempre più difficile raccontare e far comprendere i processi più lunghi, più lenti e più complicati, come sono sempre quelli educativi.
Non con le famiglie, terrorizzate da una crisi che mette in
serissimo pericolo il futuro dei loro figli, spingendole a radicarsi nella
ricerca delle competenze ( il corso di inglese a tre anni, l'allenamento tre
volte a settimana, le ripetizioni fin dalle elementari) a fronte di un disagio
economico sempre maggiore in cui le offerte gratuite sembrano non corrispondere
mai alle esigenze percepite.
Non con la scuola, strutturalmente inadeguata a rispondere alle sfide della contemporaneità e a cui, i tagli, hanno impedito i pochi miglioramenti che l'autonomia avrebbe dovuto comportare.
Non con la scuola, strutturalmente inadeguata a rispondere alle sfide della contemporaneità e a cui, i tagli, hanno impedito i pochi miglioramenti che l'autonomia avrebbe dovuto comportare.
Credo quindi che la risposta possa essere solo quella di
costruire delle reti, di cui facciano parte quegli enti, quelle scuole, quei
singoli che ancora resistono ai diktat economici e alla crisi.
Reti di confronto e di supporto, reti di educazione,
contesti che non solo teorizzino, ma mettano in pratica il fatto che crescere
un figlio non è come costruire un mobile ikea.
Reti, quindi, che non condividano solo il fine (l’educazione), ma anche un metodo.
Reti, quindi, che non condividano solo il fine (l’educazione), ma anche un metodo.
L'educazione è confronto, è scoperta, è possibilità di
sbagliare e di correggersi, è la frequentazione di persone che non ci
somigliano, è perdere tempo, è annoiarsi.
Servono reti che siano sponda di quei genitori che sentono
di non fare il bene dei propri figli, iscrivendoli a nuoto, tennis, inglese,
teatro e decoupage ma che sono a loro volta immersi in un contesto che li fa
sentire in colpa, per questo, un contesto che suggerisce che un bambino che
gioca sta, di fatto, perdendo tempo.
Reti che accolgano tutti quelli che fanno educazione, e non
contenimento, che siano spazi di confronto e di crescita per gli
adulti, ancora prima che per i bambini.
Spazi di resistenza democratica, in cui si possano
riconoscere tutti quelli che si ostinano a creare contesti educativi basati
sulle regole condivise, sull'accoglienza, sul confronto, sull'esercizio di
critica, sul gioco e sullo scambio, perché è in questi contesti che i bambini
crescono per come sono e non per come noi vorremmo che fossero.
Reti che non solo difendano l’esistente, soprattutto quando l’esistente è prezioso e di qualità, ma che abbiano il coraggio dell’analisi sociale e della proposta educativa: il mondo è cambiato, e in peggio: noi abbiamo il dovere di non restare fermi.
Reti che non solo difendano l’esistente, soprattutto quando l’esistente è prezioso e di qualità, ma che abbiano il coraggio dell’analisi sociale e della proposta educativa: il mondo è cambiato, e in peggio: noi abbiamo il dovere di non restare fermi.
Spero che nei prossimi anni, Arci - che è l'associazione per la quale lavoro e
che è da anni il contenitore delle mie sperimentazioni educative – possa essere
uno dei soggetti di questa rete di resistenza democratica ed educativa.
Lo spero perché è in gioco non soltanto, come si sente
spesso dire, il futuro dei nostri figli, ma il concetto stesso di democrazia e
di cittadinanza: una generazione a cui non è concesso di sperimentare la
democrazia – che è fatta di confronto, di scontro, di conflitto, di pazienza,
di cultura, di ragionamento e di prove ed errori - neanche nella mezz'ora di
ricreazione del mattino, infatti, non sarà mai una generazione capace di
conservare e far evolvere lo Stato in cui abita.
Come ha scritto recentemente Bruno Tognolini, che non a caso
è considerato l'unico vero erede di Gianni Rodari, per le sue meravigliose
filastrocche:
Gli abbiamo detto che la rabbia non è bene
Bisogna vincerla, bisogna fare pace
Ma che essere cattivi poi conviene
Più si grida, più si offende e più si piace
Gli abbiamo detto che bisogna andare a scuola
E che la scuola com'è non serve a niente
Gli abbiamo detto che la legge è una sola
Ma che le scappatoie sono tante
Gli abbiamo detto che tutto è intorno a loro
La vita è adesso, basta allungar la mano
Gli abbiamo detto che non c'è più lavoro
E quella mano la allungheranno invano
Gli abbiamo detto che se hai un capo griffato
Puoi baciare maschi e femmine a piacere
Gli abbiamo detto che se non sei sposato
Ci son diritti di cui non puoi godere
Gli abbiamo detto che l'aria è avvelenata
Perché tutti vanno in macchina al lavoro
Ma che la società sarà salvata
Se compreranno macchine anche loro
Gli abbiamo detto tutto, hanno capito tutto
Che il nostro mondo è splendido
Che il loro mondo è brutto
Bene: non c’è bisogno di indovini
Per sapere che arriverà il futuro
Speriamo che la rabbia dei bambini
Non ci presenti un conto troppo duro
Bisogna vincerla, bisogna fare pace
Ma che essere cattivi poi conviene
Più si grida, più si offende e più si piace
Gli abbiamo detto che bisogna andare a scuola
E che la scuola com'è non serve a niente
Gli abbiamo detto che la legge è una sola
Ma che le scappatoie sono tante
Gli abbiamo detto che tutto è intorno a loro
La vita è adesso, basta allungar la mano
Gli abbiamo detto che non c'è più lavoro
E quella mano la allungheranno invano
Gli abbiamo detto che se hai un capo griffato
Puoi baciare maschi e femmine a piacere
Gli abbiamo detto che se non sei sposato
Ci son diritti di cui non puoi godere
Gli abbiamo detto che l'aria è avvelenata
Perché tutti vanno in macchina al lavoro
Ma che la società sarà salvata
Se compreranno macchine anche loro
Gli abbiamo detto tutto, hanno capito tutto
Che il nostro mondo è splendido
Che il loro mondo è brutto
Bene: non c’è bisogno di indovini
Per sapere che arriverà il futuro
Speriamo che la rabbia dei bambini
Non ci presenti un conto troppo duro